Il sessantenne Mikael Niemi è tra gli scrittori svedesi contemporanei più pubblicati all’estero. La sua fama internazionale è iniziata nel 2000 con Musica rock da Vittula, tradotto in 26 lingue: un originale romanzo di formazione, genere fantastico borderline, ambientato in una cittadina della Lapponia svedese nei pressi del circolo polare artico. Anche questo Cucinare un orso (Iperborea-2018) ha la stessa ubicazione geografica: quella marca di confine abitata da gente di cultura sami ma appartenente alla corona di Svezia, che rappresenta una minoranza linguistica e una delle ultime popolazioni semi-nomadi d’Europa; però il genere contemporaneo di Musica rock e quelle fantascientifico del successivo Manifesto dei cosmonisti sono soppiantati da un’ambientazione storica — all’apparenza, almeno.
A metà Ottocento la Lapponia, che si estende attraverso l’estremità settentrionale di tre nazioni (Norvegia, Svezia e Finlandia), vede la predicazione del pastore Læstadius, la cui oratoria origina un vero e proprio movimento di rinnovamento religioso e sociale luterano, il Risveglio. I suoi adepti sono soprattutto sami, quelli che noi chiamiamo lapponi, ultimi rappresentanti di una cultura violentata e eradicata dalle monarchie cristiane: un popolo decimato e diviso in più nazioni, costretto a parlare e a pensare nella lingua degli altri.
«Il Risveglio era una sarabanda di fuoco e fiamme. E i fedeli sembravano trovarsi a loro agio in mezzo a tutto quel frastuono. I cuori dei peccatori palpitavano esaltati, le guance si corrugavano per l’emozione, l’intera assemblea saltava in preda all’estasi spirituale, con un gran tambureggiare di stivali.»
I rappresentanti del potere reale invece, svedesi proprietari delle terre e delle miniere e funzionari statali, sono tutti avversi al Risveglio, e sottopongono continue lamentele al vescovo per le manifestazioni plateali che talvolta i fedeli inscenano durante le funzioni in chiesa.
La struttura della trama è quella di un’indagine, una detection che Læstadius conduce in parallelo alle autorità. Una giovane contadina scomparsa viene trovata trucidata in fondo a uno stagno, in un modo che farebbe pensare a un’aggressione da parte di un orso. Læstadius però, che ha studiato scienze naturali e botanica durante la sua formazione confessionale, non ne è affatto convinto; insieme al suo aiutante Jussi, un orfano che egli ha salvato dalla morte per inedia, raccoglie prove indiziarie nei boschi dove è avvenuta la sparizione, e si convince che il responsabile è un uomo in carne e ossa.
Il procuratore del re, uno dei nemici naturali del pastore, appare interessato a chiudere il più in fretta possibile il caso, attribuendo la morte della giovane all’aggressione di un animale. Un’orsa viene in effetti cacciata, catturata e barbaramente trucidata insieme ai due cuccioli. Ma Læstadius, oltre a essere uomo di fede e devozione, confida nella ragione e nell’evidenza dei sensi. Il suo atteggiamento deduttivo lo porta a dubitare non dei fondamenti della religione, bensì della infallibilità umana. Condivide soltanto con il piccolo Jussi le proprie deduzioni, in un dialogo serrato che con il pretesto di insegnare qualcosa della vita al ragazzino, lo aiuta a chiarire a se stesso i termini dell’indagine.
La vicenda è quasi tutta vista attraverso gli occhi di Jussi; nato in una famiglia sami marginalizzata e distrutta dall’alcol, principale strumento del potere “bianco” nella cancellazione della civiltà autoctona, per non morire Jussi ha abbandonato la terra dove è nato. Læstadius l’ha accolto con sé, gli ha insegnato a leggere e scrivere, lo protegge; ma gli altri hanno paura della sua stranezza, della sua alterità. Soprattutto, è respinto da Maria, la giovane della quale è segretamente innamorato.
Come previsto da Læstadius, il colpevole del primo omicidio non è un orso ma un assassino seriale, che colpisce di notte fanciulle sorprese da sole nei boschi.
La trama gialla è però soltanto un pretesto — forse un debito da pagare alla fama che gli autori svedesi si sono conquistati nel mondo. Il vero protagonista non è il pastore Læstadius, sempre più inviso a un potere che aspetta solo un pretesto per reprimere con la forza i Risvegliati, bensì Jussi. Lo scontro tra l’establishment conservatore e la voglia di riscatto dei sami si combatte direttamente sul corpo di Jussi. Il suo martirio, morale e fisico, procede lungo tutta la storia, ed è il supplizio di un intero popolo condotto in spregio alla legge svedese e alla legge cristiana, una sopraffazione che indigna Læstadius ma che trova complicità nei contadini, i quali per ignoranza diventano strumento dell’oppressione etnico-religiosa. Respinto, picchiato, discriminato malgrado la protezione del pastore, Jussi diventa l’emblema di tutte le oppressioni su basi etniche e linguistiche. Straniero nella propria terra, il ragazzo dovrà attingere alle proprie risorse per salvarsi dall’emarginazione: innanzitutto con il potere delle parole che ha appreso dal pastore, e poi grazie alla solidarietà familiare. Ma ammesso che nelle ultime pagine un piccolo, impotente sami riesca a sottrarsi all’azione distruttrice della “civiltà”, chi rimane sprofondato nella dannazione secolare è proprio la borghesia coloniale svedese, che tratta la Lapponia come una terra di conquista e i suoi abitanti come gramigna da estirpare, razza inferiore anche davanti a Dio.
Come pressoché tutta la narrativa di Mikael Niemi (1959-), Cucinare un orso è ambientato nella valle del Tornedal, quella striscia di Lapponia lungo il fiume Tornio che fa da confine tra Svezia e Finlandia: “Avevamo l’accento finlandese senza essere finlandesi, avevamo l’accento svedese senza essere svedesi. Non eravamo niente”. Niemi ha anche quarti di sangue sami. È autore di raccolte di poesie, romanzi horror/thriller per ragazzi e racconti di fantascienza, finché arriva al successo con lo straordinario Populärmusik från Vittula, 700 mila copie vendute solo in un paese, la Svezia, che ha meno di dieci milioni di abitanti, pubblicato in Italia nel 2002 da Iperborea con il titolo Musica rock da Vittula. Tutta la sua letteratura per adulti è tesa a dimostrare che i giovani del Tornedal devono trovare una valvola di sfogo che non sia l’alcol, la fuga o la droga, come scrive Katia De Marco: Niemi si è salvato con la parola.
Franco Ricciardiello, 16 febbraio 2019