Intervista a Giuseppe Viscardi

Giuseppe Viscardi, Genovese, consulente finanziario, giornalista pubblicista e ovviamente scrittore, con tre romanzi all’attivo, ci porta, per la nostra foto intervista, alla Madonna della Guardia, luogo a lui caro e che ricorre frequentemente nella sua narrativa.

Intervista e foto di Gianluca Russo

Partiamo dal luogo che hai scelto per il nostro incontro, qual è il tuo legame con il Santuario della Guardia? Abbiamo visitato una stanza molto particolare e coinvolgente, la galleria dell’ex-voto, che citi anche nel tuo primo libro, ce ne vuoi parlare?

Il mio legame con la Madonna della Guardia è profondo e mi coinvolge sotto tanti aspetti. Intanto è il Santuario per eccellenza per noi genovesi. Io, poi, sono di fiere origini ponentine/polceverasche, e fin da piccolo sono stato abituato a vedere lassù, sul colle più alto, questa nostra sentinella così presente e vigilante sull’esistenza di noi tutti, credenti e laici. Al Santuario ho vissuto momenti significativi della mia vita, e a modo mio ho riempito di senso il termine “pellegrinaggio.

La galleria degli ex voto mi ha sempre affascinato in modo particolare. In essa si fondono devozione e arte popolare, e ogni oggetto racconta una storia speciale, per giunta a buon fine e quindi carica di ottimismo. La sintonia con i messaggi dei miei libri, e del primo in particolare, è davvero molto forte, al di là del fatto che il Santuario compare in modo esplicito nei miei primi due romanzi.

Un elemento che caratterizza i tuoi romanzi è la narrazione di storie che raccontano di persone ordinarie le quali, a seguito di circostanze straordinarie, devono lottare per il proprio riscatto e per affermare quello in cui credono. Nell’affrontare queste sfide emergono dei valori forti, qual è il messaggio che vuoi dare e che accomuna queste vicende?

I messaggi che intendo lanciare parlano di ottimismo, di impegno personale e sociale, di applicazione. Mi preme ricordare a tutti che quella che viviamo è la nostra ultima vita, e che dobbiamo affrontarla in modo da non avere rimpianti. Potrà non essere andato tutto liscio, o magari sarà andato tutto storto, ma credo sia doveroso da parte di ciascuno poter dire di aver cercato di lasciare un segno e di aver cercato di realizzare i propri sogni, invece che lasciarli a marcire nel cassetto. Inoltre credo molto nella rivincita, che è cosa ben diversa dalla vendetta. Quest’ultima è sciocca, non porta vantaggi, vuole anzi generare svantaggi ad altri a prescindere dal fatto che possa essere utile. La rivincita, invece, è l’affermazione – o, meglio, la riaffermazione – della persona. Non può essere negata a nessuno, e semmai bisogna andare a prendersela. E’ ciò che accade ai miei personaggi.

Il tuo primo romanzo ha fra i protagonisti un luogo particolare ovvero un casello abbandonato, da dove nasce questa scelta? Ha forse contribuito la tua passione per i treni?

Certamente la mia passione per i treni ha contribuito in modo determinante. Più in generale, però, mi piaceva creare una storia nella quale la ricostruzione di una vita ormai in pezzi passasse attraverso il recupero di una costruzione che a pezzi rischia di andarci davvero, visto che la funzione per la quale era stata pensata ormai è diventata inattuale. La casa, insomma, è un po’ il paradigma della vita.

La tua famiglia, i tuoi amici, la tua città sono radici alle quali mi sembra di capire sei molto legato, e questo emerge anche da diversi aspetti che caratterizzano la tua scrittura, fra cui la presenza di diversi camei dedicati a persone a te care, o per le quali hai una particolare affetto, ne hai uno su tutti che vorresti raccontarci?

In effetti il metodo che utilizzo per descrivere i personaggi e le situazioni è tratto direttamente dalla vita di tutti i giorni. Io lo chiamo “metodo Govi”, perché era quello utilizzato dal grande attore genovese per riprodurre i suoi personaggi. Osservava, ascoltava, disegnava, memorizzava: i gesti, la parlata, l’abbigliamento, la postura. Io faccio un po’ la stessa cosa, anche se non sono capace di disegnare. Però memorizzo persone e scenette che mi dicono qualcosa, o episodi che vedono protagoniste persone che conosco. Ad esempio, sempre per rimanere in tema “Santuario”, i due pellegrini che si cambiano sotto il colonnato dopo la salita davanti agli occhi non proprio benevoli di due suore, è un episodio veramente accaduto a due miei ex colleghi.

Per raggiungere la Madonna della Guardia siamo passati dalla zona di Campi ed istintivamente l’assenza del ponte ha richiamato la nostra attenzione; mi hai raccontato che l’hai visto costruire, come hai vissuto il suo crollo? In che modo ti ha segnato questa vicenda?

Ero piccolissimo quando mio papà mi portava a vedere il ponte in costruzione: avrebbe collegato la allora recente Genova – Savona alla Genova – Milano, che proprio in quegli anni veniva raddoppiata. Come tutti noi ci sono passato sopra e sotto innumerevoli volte. Tuttavia da anni ero consapevole, come tanti, che era malato. Speravo – e mi sono anche battuto in questo senso – che prima o poi qualcuno si decidesse a chiuderlo e a risanarlo sul serio, ma purtroppo…. Vederlo andare giù è stato davvero un colpo al cuore, soprattutto per le tante vittime innocenti che ha trascinato con sé nel greto del Polcevera.

A tutti in nostri foto-intervistati chiediamo di portare il proprio libro “del cuore”, il tuo è “Osservazioni di uno qualunque” di Giovannino Guareschi, ci spieghi la tua scelta e se, ne puoi scegliere uno, citarci un passaggio o una frase che ritieni particolarmente significativa?

Anzitutto tengo a dire che i miei “libri del cuore” sono tanti. Prima di essere uno scrittore sono un lettore onnivoro, che ha le sue preferenze ma legge di tutto. In particolare mi piace alternare un saggio ad un romanzo, e in questo modo scandisco le stagioni da decenni. Tra tutti ho scelto un libro di Giovannino Guareschi, ma ne avrei potuto scegliere altri, perchè la sua storia di autore mi sembra emblematica di come vadano le cose in Italia. E’ il più letto e il più bravo, ma è stato a lungo osteggiato dalla critica – non dalla gente, che invece lo ama ancora oggi – perché non allineato al pensiero dominante. Scrive cose meravigliose, parla di valori universali, in un italiano divertente, ricco e al contempo accessibile. Passaggi significativi ne ho davvero tanti, ma credo che descrivere sua figlia come “la pasionaria” sia ancora adesso un felice connubio di genialità e di ironia.

Quali sono gli scrittori a cui ti ispiri o che senti abbiano influito sul tuo stile? Quale libro si trova attualmente sul tuo comodino?  

Torno al punto precedente: sono tanti, e nei campi più vari. Quando devo citarne alcuni dico Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni tra i classici (ancora oggi, quando penso al genere “romanzo”, immediatamente la mente corre ai “Promessi sposi”), e tra i moderni – oltre a Guareschi – Indro Montanelli, Gianni Brera e Luigi Veronelli. Tre scrittori che lavoravano su materie “di serie B” – la politica, il calcio, il vino – ma con la loro capacità di scrittura (che per me è la cosa più importante quando leggo o ascolto, e la prima a cui tengo quando scrivo) le facevano diventare “di serie A”. Al momento sto leggendo “Slow Travel”, di Gaia Di Psquale, un elogio della “mobilità dolce”, ed “Effetto Larsen” del mio amico Gian Piero Luongo, la sua biografia di musicista e tecnico al seguito dei più grandi artisti della musica degli ultimi quarant’anni.

Il tuo secondo libro ha una particolarità, ovvero all’inizio di ogni capitolo viene suggerito un brano con cui accompagnare la lettura e si scopre un tuo gusto molto vasto per il genere musicale. Qual è il tuo legame con la musica e che ruolo ricopre nella tua vita.

La musica ha accompagnato praticamente ogni momento della mia vita. E in qualsiasi ambito, fin da piccolo, avendo ricevuto una valida educazione musicale in famiglia. Sono stato cantante, autore, corista, critico musicale, e non c’è praticamente genere che mi sia del tutto alieno, anche se ovviamente ho le mie preferenze. Vale per la musica quello che penso di qualsiasi forma d’arte: ha un rapporto diverso con ogni singolo ascoltatore, anche se poi credo esistano canoni estetici abbastanza universali che ti fanno distinguere – è una figura che uso spesso – tra i “campioni”, bravissimi, e i “fuoriclasse”, eccezionali. Possono non piacere a te, ma non puoi non riconoscerne la grandezza. Non riesco a smettere di cercare il bello o il piacevole nella musica che ascolto.

Fra i tuoi talenti e le tue passioni fa capolino anche il tuo impegno come conduttore radiofonico, ci vuoi raccontare qualcosa di più? A quando risalgono le tue prime esperienze dietro al microfono?

Le mie prime esperienze in radio risalgono a quasi quarant’anni fa. Ho iniziato leggendo giornali radio, poi ho condotto trasmissioni musicali, di attualità, sul mondo del volontariato, e pian piano ho iniziato a fare il radiocronista sportivo, anche su reti nazionali. Mi è capitato di viaggiare per gli stadi italiani (ma anche piscine e palazzi dello sport) per raccontare eventi sportivi, mentre negli ultimi anni ho soprattutto condotto trasmissioni sportive dallo studio, in collegamento con gli inviati e con i commentatori. E’ sempre stata un’esperienza meravigliosa. Ho provato anche la televisione, ma la radio… è magica. E, purtroppo, di nuovo fuori moda. Ma è già successo, e si riprenderà di nuovo.

Durante il nostro incontro ti ho chiesto di scegliere un passaggio del tuo ultimo libro “Ti regalo una città” che fosse per te particolarmente significativo, ci motivi la tua scelta ?

Ho scelto il passaggio dove Andrea, uno dei protagonisti, un ragazzo timido e complessato, torna nel modesto appartamento dove vive e viene accolto dal suo gattino, l’unico amico che ha. In quell’occasione, però, con lui c’è una ragazza che ha conosciuto per puro caso poco tempo prima e che, nel vedere quella scena, quasi si commuove. Un piccolo, delicato mondo del quale non sospettava l’esistenza. Mi piace questa scena perché ho voluto mettervi dentro tanti piccoli aspetti a me cari: il rapporto con i nostri amici a quattro zampe, il senso di calore della propria casa, per umile che possa essere, e… un gioco di parole – in questo caso “fusi tra le fusa” – che è un fondamentale su cui mi sento fortissimo, nello scrivere e nel parlare.

Nel tuo ultimo romanzo “Ti regalo una città” emerge il tuo impegno sociale e politico. Di recente, su un inserto di Repubblica, ho letto una bellissima intervista di Roberto Saviano a Yuval Noah Harari, storico, antropologo, saggista e professore universitario Israeliano, che illustra come l’evoluzione dell’uomo stia portando alla nascita di una nuova specie, l’Homo Deus, caratterizzata da una sempre maggiore integrazione con la tecnologia, ne riporto uno stralcio:

https://rep.repubblica.it/pwa/robinson/2019/07/28/news/non_siamo_piu_homo_sapiens-232224909/


YH: Oggi le persone entrano in contatto tra loro attraverso i loro smartphone, i loro computer e un numero crescente di decisioni sulle nostre vite sono prese da questi strumenti. Ma tra venti o trent’anni la tecnologia contenuta in uno smartphone sarà inserita direttamente nei nostri cervelli tramite elettrodi e sensori biometrici. Sarà in grado di monitorare quello che accade all’interno del corpo e del cervello in ogni momento. Potrà conoscere i miei desideri, le mie sensazioni, i miei sentimenti persino in modo più accurato di quanto io stesso ne abbia percezione, e sempre più questa tecnologia si troverà nelle condizioni di prendere decisioni al mio posto.


Arrivando alla domanda, in un contesto sociale sempre più in crisi, in cui la gente legge sempre meno, dove il dialogo è sempre più difficile, mediato ed esasperato dalla realtà “social”; ritieni che l’attuale scenario socio-politico ed istituzionale sia pronto ad affrontare questa grande sfida? Quali responsabilità individuale possiamo e dobbiamo assumerci come singoli individui?

Mi poni una domanda che non credo abbia una risposta sola. Io posso esprimere la mia opinione, ma non ho nessuna pretesa di chiarezza, né di completezza. Credo che in generale oggi ci sia troppa tecnologia e fin troppo poca filosofia, e nonostante da più parti si facciano appelli per la valorizzazione delle competenze “soft” – l’empatia, la comprensione, la mediazione – a chi guida i processi (soprattutto quelli economici) continuino ad interessare soltanto i numeri, per giunta di breve o brevissimo respiro. Essendo “Homo Politicus” (e non “Homo Deus”), sono convinto che basterebbe che ognuno facesse una sia pur piccola cosa per la propria comunità, e non importa quale (il comune, il condominio, un’associazione, la parrocchia), e il mondo sarebbe un posto migliore dove vivere. Ma credo che questa sia la più grande delle utopie.

Grazie davvero Giuseppe per averci dedicato il tuo tempo, per chi fosse interessato a seguirti ed essere sempre aggiornato sulle tue novità riportiamo qui il link al tuo blog, il casello: http://ilcasello.blogspot.com/