Intervista a Vittorio Giardino

Vittorio Giardino è uno dei fumettisti italiani più affermati in Italia e nel mondo. Le sue opere, molto apprezzate dalla critica internazionale, sono pubblicate in 18 Paesi tra cui Francia, Germania, Spagna, Stati Uniti, Giappone, Argentina. Ha ricevuto il prestigioso premio Gran Guinigi come Maestro del Fumetto, onore riservato solo ai mostri sacri delle nuvole parlanti, come Sergio Toppi, Enrique Breccia, Jiro Taniguchi.

Vittorio Giardino ha pubblicato i suoi primi fumetti negli anni ’70, da allora la sua produzione non si è mai fermata, spaziando dal noir, all’erotico, alla spy story. Nel 2018 è uscito per Rizzoli-Lizard il suo ultimo romanzo a fumetti, “Il Libraio di Praga” che completa una trilogia, “Jonas Fink, una vita sospesa”, ambientata nella Cecoslovacchia stalinista. Tutti fumetti “d’autore”, come si usa dire anche in altri campi dell’arte quando si incontrano produzioni di raffinata qualità e spessore intellettuale.

Ho incontrato Vittorio Giardino per la prima volta a Lucca durante Lucca Comics 2018. In quella occasione abbiamo concordato di incontrarci nuovamente a Milano, dove Vittorio Giardino si sarebbe recato per parlare dei legami tra arte e scienza in un appassionante dialogo con Giulio Giorello, uno dei massimi filosofi italiani. “Dal progetto al fumetto” è appunto l’evento/dialogo che si e tenuto a Milano il 10 novembre 2018, organizzato dall’Ordine degli Ingegneri; si, perché Vittorio Giardino è anche ingegnere elettronico. La piacevolissima intervista che mi ha concesso per Libri Chiacchiere Caffè e…Tè prende le mosse proprio da questo ‘strano’ intreccio tra i progetti di un ingegnere i disegni di un autore di fumetti.

Vittorio Giardino, bolognese, ingegnere, è oggi uno dei fumettisti più importanti, affermati e apprezzati in Italia e all’estero.  Probabilmente glielo avranno già chiesto in tanti, ma non posso farne a meno anch’io: come mai un ingegnere elettronico, con una carriera avviata e di successo, decide di mollare tutto e dedicarsi al fumetto?

I fumetti sono una cosa che ho sempre amato fin da bambino. Poi ho avuto la grande fortuna di arrivare molto presto alla laurea e al lavoro e questo mi ha consentito di avere due vite, privilegio raro, una prima vita da ingegnere e una seconda vita da autore di fumetti. A me piaceva fare l’ingegnere, nessuno mi aveva obbligato a farlo, e oggi qui a Milano ci sono forse più in veste di ingegnere che di autore di fumetti.  Però poi, evidentemente, avevo anche un’altra urgenza che ad un certo momento mi ha fatto abbandonare questo lavoro. Per un certo periodo, non lunghissimo, ho tentato di fare le due cose, ma rapidamente mi sono accorto, dirò ora una cosa “scandalosa”, che il fumetto richiede molto più tempo del romanzo. Probabilmente si può fare il romanziere avendo anche un altro lavoro piuttosto impegnativo, ma non si possono fare i fumetti. A quel punto era importante prendere una decisione e all’epoca, totalmente incosciente dei rischi che stavo correndo, decisi di mettermi a fare fumetti.

Con il senno di poi possiamo dire che la sua fu una scelta vincente perché oggi le sue opere hanno grande successo e sono tra le più apprezzate dalla critica internazionale.

La realtà è che i miei lettori sono abbastanza pochi, ma, per mia fortuna, sono sparsi in tanti Paesi e, messi insieme, sono abbastanza numerosi per permettermi di vivere, ed è un grande privilegio concesso molto raramente anche agli scrittori importanti. Che io sappia Svevo non ha mai vissuto di letteratura e come lui Balzac, Kafka e tanti altri. Il fumetto mette insieme i campi della scrittura e dell’arte figurativa, ma l’impegno professionale e la quantità di tempo che richiede assomiglia molto di più alla pittura, necessita un impegno totale.

In occasione dell’evento di Lucca Comics di cui lei e stato protagonista la scorsa settimana, ci ha fatto vedere quanto lavoro, quanto studio, quanta cura dei dettagli, ci sono dietro un’opera del valore di Jonas Fink o di No pasarán. Penso ai disegni, alla sceneggiatura, ma anche alla documentazione bibliografica e fotografica. Lei si occupa in prima persona di tutto questo?

Si, e anche questa è una fortuna. Molti miei colleghi non possono permettersi di lavorare così, perché ci vuole troppo tempo che non sempre viene concesso. Le ricerche vanno fatte prima ancora di cominciare a disegnare ed è una parte del mio lavoro che mi piace molto. In altri ambiti del fumetto, ugualmente validi, questo lavoro viene fatto da diverse persone. Ad esempio i fumetti della Bonelli (Tex, Dylan Dog, etc.) sono realizzati sulla base di un’idea originale di uno o al massimo due artisti, che fanno le prime sceneggiature e i primi disegni, ma successivamente le lavorazioni sono realizzate da una equipe e, normalmente, nella casa editrice c’è anche chi si occupa di fornire la documentazione. Così il disegnatore si ritrova già pronto tutto questo lavoro di preparazione, ma sono minori anche il piacere e la soddisfazione. A me piace molto curare ogni aspetto personalmente.

Quali sono i suoi abituali strumenti di lavoro? Si avvale di supporti informatici e digitali o si affida principalmente sempre solo a carta e matita, oltre che mano e ingegno?

Quando qualcuno viene a trovarmi nel mio studio la prima cosa che nota è che non c’è il computer. Non c’è perché non mi serve per disegnare le pagine, tutto viene fatto in modo tradizionale, artigianale, con pennini, pennelli, inchiostro, colori, acquarelli. È una scelta personale, non ideologica, mi piace lavorare così.  Nella parte di ricerca mi servo invece anche dei computer, ad esempio di Wikipedia, ma diffidandone. Per una prima scrematura va bene, ma poi per approfondire, non si trova abbastanza, o si trovano anche degli errori. Mi documento sui libri, ogni tanto mi capita di cercare perfino sulla Treccani, ma soprattutto frequento le biblioteche. Le biblioteche però hanno un difetto, cioè che, giustamente, chiedono la restituzione dei libri e io sono uno che… se un libro mi serve davvero, deve essere mio. Devo poterlo guardare anche all’una di notte dopo sei mesi se mi viene in mente di andare a cercarci qualcosa.

In questo troverà d’accordo i tantissimi lettori del gruppo Libri Chiacchiere Caffè e…Tè che sono amanti dei libri

Gli amanti dei libri del suo gruppo, allora, sapranno che questa è una terribile condanna perché, come me, non saranno capaci di buttare via un libro. Io conservo anche quelli della mia infanzia, tra questi una edizione delle storie di Kipling con i disegni originali in bianco e nero dello stesso Kipling, che era anche un grandissimo disegnatore. La “condanna” dei libri, quella di non poterli buttare via né sostituirli con un ebook, conduce inesorabilmente al fatto che le case diventano piccole. Io non riesco nemmeno metterli in doppia fila sugli scaffali, perché un libro che non vedo è per me un libro perso. Insomma ho un rapporto abbastanza speciale con i libri. I libri sono un campo in cui mi onoro di lavorare.

Tra i suoi personaggi più celebri Sam Pezzo è un investigatore privato, Max Fridman un ex agente segreto; le incursioni nel noir e nella spy story sono frequenti. Mi pare di cogliere una predilezione e per le atmosfere un po’ tormentate, sofferte, cariche di una tensione alla Hitchcock. Da che cosa deriva questa sua predilezione, se di predilezione si tratta?

Certo! Io ho molte predilezioni. Una è sicuramente per il romanzo poliziesco, soprattutto d’azione “americano”, non per quello “enigmistico” alla Agatha Christie, che pure mi piace. Il noir e una specie di bisturi che permette di tagliare la società contemporanea e vedere che cosa c’è dentro. Questo tipo di romanzo spesso, quando raggiunge alti livelli, racconta della società più che dell’omicidio o del colpevole di cui parla, apre degli squarci su certi ambienti; la trama conferisce tensione alla vicenda ma non è la cosa più importante. Quando iniziai a disegnare Sam Pezzo in Italia non si faceva molto romanzo noir, Carlo Lucarelli mi disse che da ragazzo era rimasto colpito da Sam Pezzo. Ora il panorama è diventato molto affollato, forse troppo, e mi sono reso conto che scrivere un buon romanzo noir non e per niente facile, anzi è molto molto difficile.

Con Max Fridman invece non avevo intenzione di inaugurare un filone di spy story ma, attraverso un personaggio un po’ particolare, volevo raccontare episodi della storia europea di un periodo che mi ha sempre interessato, quello immediatamente precedente alla Seconda Guerra Mondiale. Questo personaggio, per il fatto di essere ebreo, di vivere in Svizzera, di avere un passato da agente segreto, mi è sembrato potesse essere un ottimo testimone di quell’epoca. Max Fridman insomma è stato il pretesto per scrivere di quel periodo storico, più che per scrivere delle storie di spionaggio.

E poi è arrivato Jonas Fink. L’ultimo capitolo di “Jonas Fink, una vita sospesa” è stato pubblicato nel 2018, ma il lavoro cominciò molti anni prima, addirittura nei primi anni ‘90, “L’infanzia di Jonas Fink” esce infatti nel 1991.

Jonas Fink, è dichiaratamente un uomo qualunque che attraversa un’epoca storica di una cinquantina d’anni, la storia di una parte d’Europa che credo non sia molto conosciuta in Occidente.

La storia è ambientata nella Praga sottoposta al controllo sovietico tra gli anni ‘50 e il ’68, con un epilogo all’inizio degli anni ‘90. Perché ha voluto raccontarci quel mondo che stava al di là del Muro di Berlino?

All’origine c’è soprattutto la mia predilezione per la letteratura dell’Europa Orientale contemporanea, a cominciare da quella russa. La letteratura di quelli che sono stati spesso letterati dissidenti, persone che hanno avuto forti guai per le loro pubblicazioni. Poi tanti altri fattori tra cui anche proprio la giornata di ieri: il 9 novembre nel 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino. All’epoca ho viaggiato molto come ingegnere in quei Paesi, e sono stato testimone di anche di fatti che pochi notarono. Ad esempio l’apertura di un varco nella frontiera tra Austria e Ungheria nell’agosto del 1989, le persone si mescolarono per poi tornare ognuno a casa propria, ma poi, tra agosto e settembre, si formò una colonna di auto provenienti dalla Germania Est, attraverso Ungheria e Austria, per arrivare nella Germania Ovest. Quando il 9 novembre 1989 tutti si chiedevano “chi poteva immaginarlo?” io, presuntuosamente, pensai che lo avevo immaginato fin da agosto perché avevo visto quel varco e conoscevo quel mondo.

L’ultimo capitolo di Jonas Fink si intitola “Il libraio di Praga”. Le persone del nostro gruppo FB immagino siano curiose, come me, di sapere il perché di questa scelta. Perché Jonas Fink, in quella Praga comunista, doveva essere proprio un libraio?

Perché in questa storia i libri hanno un ruolo centrale. Ci sono spesso anche citazioni, dal diario di Kafka, da una poesia di Anna Achmatova, ma soprattutto c’è l’idea che il libro rappresenti una estrema difesa contro la dittatura. Qualunque dittatura che si instauri fa della censura una delle sue prime preoccupazioni, ma per quanto si sforzino di censurarla non è così facile cancellare la letteratura; Kafka era proibito durante il periodo comunista a Praga ma Kafka non fu cancellato. Come forma di resistenza non violenta c’era, diffusa in quei Paesi, la ricerca e la diffusione di scritti di cui il regime non permetteva la pubblicazione; un sistema clandestino di circolazione raggiungeva una larga quota di persone, persone che volevano leggere, anche perché quello che veniva trasmesso dalla TV sovietica era insopportabile!

Ho avuto la fortuna di conoscere Praga prima della caduta del Muro di Berlino, aveva all’epoca una atmosfera particolare che ho ritrovato nelle sue pagine. Ricordo in particolare proprio che era piena di librerie, si avvertiva come il bisogno di far circolare la cultura dal basso. Nella Praga di oggi però non ci sono più tutte quelle librerie.

Verissimo. Questa è una osservazione che ho fatto anch’io e che ho voluto mettere nel mio libro, dove, come avrà visto, della libreria dove Jonas ha lavorato buona parte della sua vita, resterà, dopo la fine del regime, soltanto la vetrina, perché è diventata una boutique. Quello che l’Occidente ha fatto di tutto il centro di Praga è di trasformarlo in una sfilata di catene di marchi internazionali della moda e del consumo che si trovano in qualunque città. Forse gli abitanti di Praga sono più felici adesso, ma per me che venivo da fuori e ho assaporato quel clima che previlegiava i libri rispetto ad altre forme di consumo più frivolo, questo tipo di evoluzione è un peccato. Di sicuro noi occidentali non abbiamo portato solo bei doni ma anche mele avvelenate, c’è stato un cambiamento del clima umano.

I suoi personaggi femminili sono donne intelligenti, affascinanti, sensuali, mai banali. Io sono follemente innamorato di Terry Wang, Tatiana e Claire. Si è ispirato a qualche donna reale per crearle?

Ma certamente! Probabilmente ho in mente un modello di bellezza femminile che si riverbera nei miei disegni ma anche nelle mie scelte di vita. Spesso chi conosce la mia famiglia ritrova dei tratti di mia moglie in alcuni dei miei personaggi femminili; si tratta di una cosa abbastanza comune agli autori di fumetti, se lei ad esempio conoscesse la moglie di Guido Crepax scoprirebbe che…è Valentina. Mi è anche capitato di far posare le mie figlie, quando erano bambine, come modelle per il volto dei miei personaggi femminili bambine. Per quanto riguarda invece i caratteri ci sono influssi più generali, ad esempio da personaggi femminili della letteratura.

Il fumetto ha subito, almeno in Italia, una radicale trasformazione iniziata forse già negli anni 80: da lettura per ragazzi a letteratura per tutti. Le librerie dedicano sempre più spazio ai libri a fumetti. Direi che il fumetto è diventata una forma di comunicazione e di arte matura. Condivide questa visione? Quali prospettive vede per il fumetto in Italia e nel Mondo?

Al contrario dei Paesi francofoni dove i fumetti sono nelle librerie dagli anni ’30, nel panorama italiano il fumetto è stato per molti anni un linguaggio poco compreso e poco amato dall’ambiente letterario. Il Corriere dei Piccoli, grande testata per ragazzi, dalla storia illustre, non amava i fumetti al punto da pubblicare quelli americani togliendo i balloon e sostituendoli con terzine in rima in didascalia. Si trasformava il fumetto in un libro illustrato. L’idea che il libro illustrato fosse qualcosa di nobile e “alto”, mentre il fumetto qualcosa di culturalmente “basso”, di cui era bene non occuparsi, è durata molto molto a lungo.

Poi ci fu una svolta negli anni ’60 con la nascita della rivista Linus, favorita da un gruppo di intellettuali di grande spessore, da Eco a Vittorini, attenti alla cultura americana. Insieme all’entusiasmo del primo direttore Giovanni Gandini, diedero origine ad una rivista rivoluzionaria per l’Europa e forse per il mondo intero. Linus ha dato al fumetto una nuova dignità, sia pubblicando in forma integrale grandi fumetti stranieri, sia favorendo la nascita di alcuni fumetti italiani di grande livello, come Corto Maltese di Hugo Pratt e Valentina di Guido Crepax. Così il fumetto in Italia ha cominciato a rivolgersi ad un pubblico adulto, sia per gli argomenti che per i riferimenti culturali. Per arrivare alla situazione attuale ci è però voluta l’irruzione, finalmente, dei fumetti da tutto il mondo, pubblicati rispettando la forma originaria, come ad esempio i manga giapponesi che in Giappone sono esplosi fin dagli anni ’20, ma che in occidente sono arrivati negli anni ’80. I manga per gli argomenti affrontati allargarono per la prima volta il pubblico di lettori del fumetto all’universo femminile, preponderante nella maggior parte dei generi letterari.

Per quanto riguarda le prospettive del fumetto credo che oggi ci sia una enorme articolazione di fumetti, si sono formati nicchie di lettori che, spesso, non hanno la curiosità di assaggiare cose diverse. Il fumetto poi oggi e insidiato da altri linguaggi, come web e cinema, e qualcuno pensa sia l’inizio della fine. Tuttavia sono convinto che il fumetto non finirà. Se è vero che gli anni d’oro dal punto di vista commerciale, sono finiti all’inizio degli anni ’50, è altrettanto vero che il fumetto, come la letteratura, ha un grande vantaggio rispetto ad altri linguaggi: non ha bisogno di soldi. Qualunque ragazzo può mettersi ad un tavolo con un foglio di carta e una matita ed esprimersi. Questa grande libertà non può essere sostituita da altro, esattamente come la scrittura e la composizione musicale.

Sono totalmente d’accordo sull’importanza della curiosità di aprirsi ad altri mondi, ad altre letture verso le quali magari siamo un po’ refrattari. Io rifiutavo il fumetto giapponese, poi ho scoperto opere geniali e maestri straordinari come Taniguchi.

All’interno del fumetto, come in ogni linguaggio, si trova di tutto, cose di basso livello e grandi capolavori; se non si è frequentato quel linguaggio si rischia di prendere un’opera a caso e trovarla orribile, perché lo è, e poi non si e invogliati a continuarne l’esplorazione. La difficolta di decifrare un linguaggio che per molti può essere nuovo, come il fumetto, viene spesso sottovalutata. Il linguaggio si impara da bambini, e se si arriva adulti senza averlo imparato poi diventa più difficile: ho notato che chi non ha mai letto fumetti da bambino ha grosse difficoltà a leggerli da adulto, perché, malgrado l’apparenza, il fumetto è un linguaggio complesso.

Domanda d’obbligo per concludere. A quali progetti sta lavorando? C’è ancora qualche sogno nel cassetto che vuole realizzare?

I sogni nel cassetto sono talmente tanti che il cassetto trabocca, non mi mancano le suggestioni per fortuna. In questo momento sono impegnato nelle frequenti presentazioni dell’ultimo libro e non ho ancora avuto il tempo di scegliere a quale tra le mie suggestioni dedicarmi per prima. Ho bisogno di trovare la tranquillità e la concentrazione per pensare a questo e, sinceramente, non vedo l’ora di mettermi seriamente al lavoro, che per me significa chiudermi in una stanza e stare al tavolo per ore con poche distrazioni. Quella che molti vedrebbero come una condanna è per me il sogno.

E allora io non vedo l’ora di leggere un altro dei suoi libri. Grazie per il tempo che mi ha dedicato anche a nome dei lettori del gruppo Libri Chiacchiere Caffè e… Tè.

Grazie anche da parte mia, l’intervista è stata molto bella perché io mi nutro di letteratura e aver modo di parlare in generale di letteratura è qualcosa che mi interessa sempre molto.