Chiara Marchelli è nata ad Aosta e si è laureata in Lingue Orientali a Venezia. È autrice di romanzi, una raccolta di racconti e un saggio su New York, la città dove vive. Con Le notti blu (Giulio Perrone Editore 2017) è entrata nella dozzina finalista del Premio Strega. NNE ha pubblicato anche La memoria della cenere (2019) e Redenzione (2020). In questa foto intervista attraverso le domande di Chiara Giulia Arienti e le fotografie di Gianluca Russo si racconta per noi.
Intervista di Chiara Giulia Arienti e foto di Gianluca RussoLeggendo nelle varie interviste hai definito Madre Terra “l’opera più sociale che tua abbia mai scritto”. Opera seconda di una trilogia dedicata ai profondi disagi. Cosa ti ha ispirato ad affrontare questi temi?
Premetto dicendo che non credo che sia compito degli scrittori riflettere necessariamente la società in cui vivono nei loro romanzi. Calvino diceva che più che la situazione politica e sociale in cui era immerso, gli interessava raccontare l’animo umano. Sono d’accordo. Ma succede che ci siano momenti nella storia, quella collettiva, in cui invece ciò che ci circonda diventa imperativo e ci chiede di essere raccontato. Probabilmente questo è quello che è successo a me nel momento in cui ho immaginato Redenzione e Madre Terra e, soprattutto, mentre scrivevo. Lo scrittore assorbe il mondo che gli sta intorno e, in qualche misura, lo restituisce compiendo delle scelte: se di raccoglimento personale o di interesse sociale. Tutto dipende da come sta, in un dato momento, nel mondo.
No, non avevo neppure intenzione di scrivere una trilogia. Con Redenzione volevo soltanto esplorare un certo tema e l’unico modo che ho trovato per farlo è stato quello di adottare il genere del giallo. “Sporcandolo” con rotture e allontanamenti che appartengono alla narrativa letteraria, come sempre più spesso accade nei libri cosiddetti noir o gialli.
Ho costruito Nardi come costruisco da sempre tutti gli altri personaggi: pensandoci, lasciando che si formasse e crescesse dentro di me, scrivendo. Ho la grande fortuna di poter far riferimento a un ex-comandante dei carabinieri, Cesare Neroni, che mi aiuta molto nella costruzione delle indagini, ma Nardi e Neroni sono due persone molto diverse. La personalità di Nardi è soltanto sua; la sua carriera è ispirata a quella di Neroni. È successo, sia in Redenzione che in Madre Terra, io abbia incluso veri e propri aneddoti accaduti nella realtà. Il resto, è frutto della mia immaginazione.
Madre Terra è un titolo molto evocativo, come mai questo nome?
Il titolo l’ha trovato la mia editrice e riassume, secondo me, l’essenza del libro. Per questo motivo preferirei lasciare che ognuno vi trovasse il suo senso.
Negli ultimi anni sei passata a scrivere gialli. Cosa ti ha portato a questa scelta?
Il tema ha chiamato il genere. Non riuscivo a scrivere ciò che avevo in mente con gli strumenti della narrativa letteraria. La storia non veniva fuori, e nemmeno i personaggi. Rimaneva un tema: astratto, freddo. Così mi sono chiesta se, provando una cornice narrativa nuova, trasportando la mia intenzione dentro un territorio diverso, potesse funzionare. E ha funzionato: la storia è arrivata subito, e con essa i personaggi. È vero che, a seconda di ciò che si racconta, bisogna adattare non solo lo stile, ma anche il genere. Uno dei molti esempi di scrittori che non hanno paura a muoversi tra generi letterari è Margaret Atwood, che nel corso della sua carriera ha fatto tutto: poesia, romanzo storico, narrativa speculativa, per dirne alcuni. Che i miei ultimi due romanzi siano gialli non significa che io abbia cambiato completamente genere. Prima di tutto perché, appunto, ho usato il giallo come un pretesto per raccontare le storie che avevo in mente, e poi perché credo che sia importante – essenziale – per uno scrittore provarsi su vari terreni. L’auspicio per uno scrittore è che non ripeta se stesso, che abbia il coraggio e gli strumenti per sperimentare e uscire da quello che gli è familiare e gli riesce bene. La pigrizia e la paura sono due pericoli da cui gli scrittori dovrebbero guardarsi.
Quanto ai sentimenti che ho provato, forse quelli che mi auguro di suscitare nel lettore: rabbia, pena, tenerezza, tra gli altri.
Ogni libro che hai scritto è ambientato in una città a te cara e che conosci molto bene. Vale anche per Volterra ed in caso affermativo che ruolo ha avuto questo luogo nella tua vita?
Sì, vale anche per Volterra. Volterra è un luogo che frequento da qualche anno e che mi è diventato così familiare da poterne scrivere. Lì ho costruito intimità e amicizie. È peraltro una città molto affascinante e ricca di storia (e storie), tanto che ormai la tratto non soltanto come un’ambientazione, ma come un vero e proprio personaggio.
Vivi tra New York, la Val d’Aosta e un po’ Arenzano (la nostra città), hai un logo o un momento preferito in cui scrivere?
I luoghi sono quelli che menzioni: ognuno di questi è presente nei miei libri, è fonte di ispirazione e ospita un tavolo su cui, la mattina presto se sto scrivendo un romanzo e qualsiasi momento se lo sto correggendo, mi siedo a lavorare. Non riesco a scrivere nei bar o all’aperto: mi distraggo a guardare e ascoltare la gente intorno a me. Per scrivere ho bisogno di silenzio e, preferibilmente, una finestra davanti agli occhi.
C’è un libro in particolare che ha segnato la tua vita? Per un nostro “gioco”, chiediamo di portare un libro del cuore, qual è stata la tua scelta e perché?
Ce ne sono molti, ma il primo che mi è venuto in mente leggendo questa domanda è “Il mio nome è Asher Lev” di Chaim Potok. È un libro di formazione: la storia di un ragazzo ebreo, appartenente a una comunità ortodossa molto chiusa, che diventa un pittore. Per seguire la propria natura, Asher dovrà capire chi è, cosa vuole, cosa gli serve, e confrontarsi duramente con tutto ciò che conosce e ama.