Il mio nome è Maria Maddalena di Roberta Trucco (Marlin – 2019) è uno dei libri che più mi ha lasciato il segno e più mi ha fatto pensare degli ultimi anni.
Per questo sento di doverne parlare, anche se dopo la splendida postfazione di Grazia Francescato è davvero difficile poter aggiungere qualcosa che non sia già stato detto di questa bella opera prima.
Già, perché “il mio nome è Maria Maddalena” è il primo, e per ora unico, romanzo di Roberta Trucco. A dirla tutta lei non si ritiene nemmeno una scrittrice, eppure il suo libro ha una forza dirompente. Si avverte fin dalle prime pagine l’urgenza che aveva l’autrice di scrivere, la necessità assoluta di comunicare il suo pensiero… sull’uomo, sulla natura e sul Mondo.
Maria Maddalena ha un sogno, vuole andare in Amazzonia, spera di poterlo realizzare con una borsa di studio. Ma quando questa viene assegnata ad altri decide che ci andrà comunque e, per finanziare il viaggio, si offre come madre surrogata. Scoprirà che John, il bravissimo medico che segue la sua gestazione presso la clinica di Los Angeles cui si è rivolta, è destinato a diventare il padre del figlio che lei porta in grembo; uno dei due padri, perché la coppia che ha ‘ordinato’ un figlio è una coppia gay.
Maria Maddalena è assolutamente determinata nel suo proposito, ma una serie di colpi di scena, che non rivelo e che contribuiscono non poco ad avvincere il lettore, la condurranno a ripensare la sua scelta e poi a raggiungere l’Amazzonia insieme a John e ad altri due compagni di viaggio: Nicholas, un suo collega di studi, e Jennifer, l’infermiera originaria proprio dell’Amazzonia che lavora nella clinica di John. Nicholas e Jennifer sono personaggi determinanti nella vicenda e nella sua conclusione; ma ancora più determinante è la foresta amazzonica presso cui Maria Maddalena comprende il significato profondo del legame indissolubile, radicato nel nostro inconscio, che noi tutti abbiamo con il ventre che ci ha partorito. Quel Continuum descritto da Jean Liedloff nel saggio “Il concetto del Continuum” (Edizioni La Meridiana) che è anche uno delle manifestazioni più profonde del sottile equilibrio tra noi e il mondo naturale cui apparteniamo, equilibrio che la nostra cultura occidentale ha distrutto nel cieco inseguimento della realizzazione del desiderio vissuto come affermazione di un diritto, con la fede in un mito di crescita che è delirio di onnipotenza.
Come avrete capito “Il mio nome è Maria Maddalena” è un libro denso di argomenti attuali e scottanti: la maternità surrogata, l’emancipazione femminile, gli stereotipi di una società profondamente patriarcale, la lotta per i diritti LGBT, la paura della diversità, la salvaguardia dell’ambiente, il riconoscimento/non riconoscimento dei propri limiti. È un romanzo decisamente ‘politico’, nel senso più nobile del termine.
Si potrebbe pensare che affrontare tutti questi temi in un solo libro porti inevitabilmente alla superficialità o ad una insostenibile pesantezza. Invece Roberta Trucco ha compiuto qualcosa di magico. È riuscita ad essere di una leggerezza e di una profondità che non saprei descrivere; leggere il suo romanzo è stato come volare sulla foresta con le ali di un maestoso uccello e, durante il volo, poterla cogliere tutta insieme nella sua grandezza e contemporaneamente godere della meraviglia di ogni suo albero e di ogni sua radura. I temi toccati sono intrecciati ed elaborati in una sintesi che è un nuovo paradigma, una visione, come dicevo all’inizio… sull’uomo, sulla natura, sul Mondo.
Questa visione non è utopia, anzi è inevitabile, perché l’alternativa sarebbe perdere la nostra identità umana e cancellarci con l’autodistruzione. Mi ricorda molto quello che ho letto e capito del buddismo, attraverso soprattutto le parole del Dalai Lama e di qualche libro come ad esempio “Il Tao della Fisica” di Fritjof Capra (Adelphi). Ma bisogna battersi per affermare un nuovo paradigma, e Roberta/Maria Maddalena è pronta a farlo, con le armi dell’intelligenza e della motivazione. Credo sia inevitabile che scriva un altro libro, perché la battaglia è solo all’inizio.
Vittorio Benzi, 3 marzo 2020